Al pari di ogni accadimento pubblico e privato che ha avuto luogo dopo la messa a punto e la diffusione della fotografia, anche la Resistenza è stata oggetto di rappresentazioni e d’interpretazioni fotografiche, realizzate in maniera diversa dai differenti attori coinvolti nel conflitto.
L’insieme di immagini che può essere collocato sotto la generica definizione di fotografie della Resistenza comprende diversi soggetti: i caduti, le sfilate della Liberazione, la ricostruzione di alcune azioni di guerra e, non ultimi, i ritratti dei partigiani e delle donne combattenti.
La maggior parte dei ritratti qui presentati sono stati realizzati, a Liberazione ormai avvenuta, da fotografi professionisti. I combattenti scelgono di farsi immortalare quasi sempre in divisa e all’interno di uno studio fotografico.
Per capire in che contesto si collocano queste immagini, occorre prima chiarire il rapporto intercorso tra i partigiani e la fotografia, e che tipo di rappresentazione fotografica dei combattenti è stata data all’interno e all’esterno del movimento di liberazione.
I partigiani fecero un uso alquanto limitato del mezzo fotografico, innanzitutto per ragioni di sicurezza legate alla clandestinità, ma anche per una generale sottovalutazione delle sue potenzialità comunicative. Per tali motivi la documentazione fotografica dei primi episodi della Resistenza è “sporadica, casuale, qualitativamente bassa e molto spesso difficilmente decifrabile” (Mignemi, 1995).
Nella raccolta di testimonianze dell’area bellunese curata da Sergio Fant (1993), viene ad esempio menzionato il divieto assoluto di fotografare che Aldo Sirena, comandante della brigata Tollot, aveva impartito ai propri uomini. In altri casi i combattenti non dovevano portare con sé macchine fotografiche, perché il ritrovamento da parte del nemico di un intero rullino poteva rappresentare un pericolo ben maggiore rispetto ad una singola fotografia. Laddove invece fosse stato necessario realizzare delle foto, colui che si occupava degli scatti aveva il compito di rendere quanto più irriconoscibile lo sfondo della composizione, anche sfocandolo all’occorrenza.
Un cambiamento si verificò al mutare dell’organizzazione della guerriglia partigiana. Un caso esemplare è rappresentato dalle divisioni garibaldine della Valsesia, nelle quali è stata riscontrata una certa attenzione per quella che oggi definiremmo la comunicazione della propria immagine, attraverso l’autorappresentazione dei reparti, la cura nei dettagli della divisa, il miglioramento del materiale a stampa, la progettazione di cartoline e francobolli.
Questa attenzione però non coincise né si trasformò mai in un interesse specifico verso il mezzo fotografico; tra i membri del movimento clandestino, infatti, vi fu sempre “un’impreparazione di fondo all’impiego sistematico della documentazione fotografica e all’uso strumentale dell’immagine” (Mignemi, 1995).
Le ragioni di tale mancanza sono state individuate non solo nei già menzionati problemi di riservatezza, ma anche in ragioni pratico-logistiche come la difficoltà di reperire i materiali per lo sviluppo e la stampa delle immagini, e l’assenza tra le fila della guerriglia partigiana di combattenti capaci di gestire al meglio il mezzo fotografico.
Nonostante queste limitazioni, sono giunte a noi numerose fotografie realizzate dai partigiani, che nella fase precedente alla Liberazione – fatta eccezione per gli importanti casi del biellese Luciano Giacchetti (Lucien) e del cuneese Felice de Cavero (Felix) – sono caratterizzate soprattutto dal modello fotografico della foto-ricordo, dato da un uso principalmente privato della macchina fotografica.
Subito dopo la Liberazione, ritroviamo i partigiani anche nelle fotografie scattate dagli Alleati il cui interesse principale, però, è immortalare gli aiuti da loro forniti alla Resistenza. Nelle immagini degli operatori americani ed inglesi i partigiani non sono rappresentati come combattenti, ma si sceglie piuttosto di metterne in risalto superficialmente gli aspetti folcloristici (Casadio, 1987).
Contemporaneamente all’immagine dei partigiani data dagli Alleati, si afferma un altro schema di rappresentazione, quello fornito dai fotoreporter (basti ricordare nel caso della liberazione di Milano i nomi di Vincenzo Carrese, Fedele Toscani, Peppino Giovi, Tullio Farabola e Frattini).
In pochissimo tempo, con delle immagini dotate di una forza che mancava a quelle scattate sul campo nei mesi precedenti, questi fotografi professionisti danno vita non solo al racconto per immagini della Liberazione, ma soprattutto alle tipologie di rappresentazione dell’intera lotta di resistenza armata, ed è a questo punto che nasce il ritratto partigiano. In queste foto di agenzia “il gesto ricostruito, artificioso, è più esemplare di quello spontaneo” (Mignemi, 1995).
Anche nei centri minori i fotografi locali documentano le fasi della Liberazione e gli eventi che ne seguirono. Con le consuete dinamiche di reiterazione di modelli compositivi tra il centro e la periferia, svariati sono i soggetti che vengono raffigurati: la cattura di un collaborazionista e la sua punizione, parate, esecuzioni, ed ovviamente i ritratti dei partigiani.
È proprio in questo contesto periferico che si collocano le nostre fotografie dei combattenti ed è opportuno specificare che il termine “periferico” non sottende un giudizio di valore. Infatti, a Parma negli anni Quaranta del ‘900 erano attivi stabilimenti fotografici di un certo rilievo, come le ditte “Foto fratelli Carra” e “Fratelli Zamboni”. Nel 1929 si era inoltre trasferito in città il celebre artista e fotografo Luigi Tosi, autore di uno degli scatti più interessanti di questa selezione.
Sulla scorta di quanto detto fin qui, è lecito ipotizzare che questi ritratti non sono stati realizzati con il solo scopo di possedere un ricordo personale, ma vanno inseriti in un discorso più ampio di autorappresentazione dei partigiani che potrà essere chiarito ed approfondito nei prossimi mesi grazie all’acquisizione di altre fotografie